Può essere quindi che la moda, per le donne, sia solo un comune interesse, tanto blando da non permetterle di farne una stimata professione?
C’è qualcosa che non torna. Non molto tempo fa, ho affrontato una piacevole conversazione con un ragazzo, neo-iscritto in uno dei più illustri istituti di istruzione di moda a Milano. Con il fare di chi sta parlando di qualcosa di ovvio, mi ha spiegato come per lui fosse spesso difficile socializzare in quella scuola. Proprio a causa della preponderante presenza femminile. Sorvolando sulle maliziose valutazioni in merito agli aspetti positivi, del frequentare assiduamente l’altro sesso, mi sono trovata a dover constatare con lui, anche sulla base delle mie stesse esperienze, quanto fosse in effetti innegabile l’assoluta prevalenza numerica di donne nel ramo moda a livello scolastico.
A pochi mesi da quella chiacchierata, sono venuta a sapere che il marchio del gruppo Kering, Alexander McQueen, ha nominato il suo nuovo direttore creativo. Sean McGirr, ex head di JW Anderson, l’appena scorso settembre, ha preso il posto di Sarah Burton.
Mi è sorto quindi un dubbio, che subito ho tentato di dissipare con mirate ricerche sul web, di cui vi riporto fedelmente i risultati. Direzioni creative dei brand di lusso (dati pubblicati a settembre 2023): nella multinazionale LVMH, uomini 78%, donne 22%. Nell’azienda spagnola PUIG, uomini 80%, genderfluid 20%, donne 0%. Nella holding RICHEMONT, uomini 100%, donne 0%. E, infine, nel colosso Kering, uomini 100%, donne 0%. Mi sono domandata, quindi, che fine fa quella maggioranza di studentesse di cui parlavo con il ragazzo? Ecco a voi la risposta. Studi condotti dalla SMI – Federazione Tessile Moda, sulla base delle elaborazioni effettuate dal Centro Studi di Confindustria Moda, hanno mostrato che, in Italia, nel settore del tessile e dell’abbigliamento, il 69,2% delle donne sono operaie, il 26,9% sono impiegate, lo 0,9% occupa posizioni quadro e solo lo 0,3% riveste ruoli dirigenziali.
Non nascondo un profondo sentimento di sconforto. È un dato di fatto. Dopo decenni di battaglie per la parità dei sessi e nonostante i notevoli esempi di fulgido successo, dobbiamo ancora constatare che la guerra al pregiudizio non è vinta. Anche nel settore in cui dovrebbe soffiare il più fresco vento di cambiamento, quello della moda, l’aria risulta più ferma che mai. E se non considero gli ormai stantii moventi circa le presunte, naturali quanto obbligate, attitudini femminili alla cura della prole ed alle mansioni domestiche, che, nei tempi (che credevo preistorici), hanno relegato la donna ai più bassi stadi dell’occupazione lavorativa, non riesco a trovare alcuna motivazione che possa giustificare la banalizzazione della dimensione artistico/creativa ad una questione di genere.
Può essere quindi che la moda, per la donna, sia solo un comune interesse, tanto blando da non permetterle di farne una stimata professione? Lasciamo che risponda alla domanda chi può rappresentare quella inspiegabile minoranza, chi, illuminata dai riflettori dell’esposizione mediatica, può dimostrare a tutti il contrario. Passiamo la parola alla tedesca, classe 1981, Chemena Kamali, che, dopo anni al fianco della nostra Phoebe Philo, pochi giorni fa, è stata nominata direttrice creativa della maison Chloé. Con la speranza che, una volta per tutte, si riesca a far capire, al fashion system e all’intero mondo del lavoro, che, come le altre qualità umane, la virtù creativa non è solo una “secrezione naturale”, ma anche il frutto di un percorso personale, culturale e sociale, sicuramente ben lontano da categorizzazioni sessuali, riconosciute o meno che siano.