Domingo Nardulli: Caro Diario

Il racconto di memorie intime diventa una finestra sui rapporti umani, una dimensione di dialogo e di confronto, un richiamo all’essenza di ciò che siamo. L’universo concettuale di Caro Diario si articola su una pluralità di piani sovrapposti e intersecati: Domingo ce ne fornisce le chiavi di lettura in questa amichevole chiacchierata

Caro Diario è il più recente progetto realizzato da Domingo Nardulli, fotografo di origini pugliesi le cui cifre stilistiche comprendono semplicità, autenticità e memoria. Immagini quotidiane e intime vengono accostate a testi densi di pregnanza emotiva e presentate sotto forma di manifesti, affissi in spazi urbani per un arco di dieci giorni. Protagonisti di questi scatti concettuali sono oggetti quotidiani: un piatto di pasta, un trenino giocattolo, una caramella. La loro estrema semplicità si pone in netto contrasto con la profondità dei messaggi: “Ti ho lasciato un po’ di pasta in bianco”, “Scoprirai cose che io non saprò dirti e sarà bellissimo“.

Frasi brevi, dirette, intime eppure capaci di risuonare in ognuno di noi. Ne deriva un effetto dirompete e poetico, che colpisce lo spettatore e ne suscita l’improvviso coinvolgimento emotivo nel fremito urbano della città. Caro Diario vuole essere una reinterpretazione del diario personale, reso pubblico e partecipativo. Perché la vita privata è pubblica quando tocca l’anima di chi la guarda. 

La scelta delle città in cui affiggere i manifesti ricade su luoghi che hanno avuto un ruolo significativo nella vita del fotografo: Acquaviva delle Fonti, Roma, Milano e Firenze.  Centri urbani piccoli e grandi vengono così uniti in un dialogo nazionale, rendendo il progetto accessibile a pubblici diversi.  La strada assume le sembianze di una pagina bianca, una galleria; la città diviene un luogo per la riflessione.  Le affissioni rappresentano il primo capitolo di un viaggio più ampio, che si articola in una raccolta di circa 140 immagini di vita quotidiana. Gli scatti verranno presentati in una prossima mostra a Milano. Una biografia visiva che racconta i dettagli di ciò che spesso passa inosservato, ma che costituisce l’essenza ultima di ciò che siamo. Già protagonista di una precedente intervista incentrata sul suo progetto Milos, bella così, incontriamo nuovamente Domingo Nardulli per farci raccontare l’universo di Caro Diario. 

D. Ciao! È sempre un piacere risentirsi, soprattutto quando si parla di fotografia e di quei progetti che nascono dal cuore. Caro Diario è nato in modo spontaneo, quasi come un’esigenza intima. Quella di raccontare il mio punto di vista, la mia sensibilità e quella semplicità che ha sempre fatto parte del mio percorso, sia professionale che personale. Non lo considero solo un progetto fotografico. È piuttosto una lettera aperta, un piccolo archivio visivo dedicato a tutte le persone che, in un modo o nell’altro, hanno fatto parte del mio cammino. Amori perduti, legami di sangue, amici di sempre e anche presenze fugaci. Ognuno ha lasciato un segno, e Caro Diario prova a restituirglielo con delicatezza e gratitudine.

È una sorta di ringraziamento per esserci stati, nel bene e nel male. Perché cresciamo soprattutto quando cadiamo, quando sbagliamo, quando ci mettiamo in discussione. Siamo persone, e come tali ci riconosciamo e ci identifichiamo negli altri. Io, personalmente, lo faccio attraverso le immagini: è il mio modo più sincero di comunicare, di raccontare e, a volte, anche di guarire. È strutturato come un diario emotivo, fatto di immagini che parlano quando le parole mancano. Ogni scatto è un frammento di memoria, una riflessione, una pagina vissuta sulla mia pelle. 

D. Sì, ricordo bene quella chiacchierata. Confermo che tutto parte proprio da lì: dalle giornate lente in Puglia, passati a sfogliare l’album di famiglia con una curiosità quasi sacra. Quelle fotografie, con i loro margini consumati e i colori sbiaditi, sono state il mio primo contatto con il tempo, con la memoria, con l’idea che ogni immagine potesse contenere una vita intera. In Caro Diario quella dimensione intima dei ricordi è ancora molto viva. C’è la mia infanzia, ci sono gli sguardi che mi hanno cresciuto, i silenzi che mi hanno formato. Ma soprattutto, c’è quella necessità di fermare il tempo per rileggerlo più avanti, con occhi diversi. Ogni scatto porta con sé una piccola storia personale, ma è pensato per essere letto anche da chi non mi conosce—ma si riconosce.

È questo il passaggio che rende Caro Diario un progetto profondamente collettivo: perché anche se cambiano i volti e i contesti, le emozioni che viviamo sono universali. Il lutto, la gioia, l’attesa, la perdita, la rinascita sono esperienze che ci uniscono, ci rendono simili. I miei ricordi sono stati la linfa vitale che ancora oggi porto dentro per dare vita a nuove narrazioni, più consapevoli e più vere. E forse oggi, in un tempo dove tutto si consuma in fretta e si dà per scontato, dove la connessione è più digitale che emotiva, sento ancora di più l’urgenza di difendere la memoria, quella autentica. Quella fatta di gesti semplici, di presenze reali, di silenzi condivisi. Caro Diario è anche una piccola denuncia a questo presente che ci distrae continuamente e ci fa dimenticare quanto sia prezioso fermarsi e guardarsi davvero.

D. Ritorno un po’ al punto di prima: viviamo in una società che ci spinge continuamente ad apparire, a mostrare, a emulare qualcosa o qualcuno, spesso senza nemmeno chiederci se ci appartiene davvero. In questo contesto, Caro Diario vuole fare l’esatto contrario: riportare al centro l’essere, prima dell’apparire. Essere se stessi, sempre, al 100%; accettare le proprie fragilità, riconoscere i limiti, abbracciare i propri punti di forza.

Solo così, credo, si può rinascere davvero. La scelta di portare un diario personale nello spazio pubblico nasce proprio da questa esigenza: rompere i confini tra ciò che è intimo e ciò che è collettivo. Perché se c’è una cosa che ho capito, è che l’intimità condivisa non indebolisce, anzi, rafforza. Quando affido un pensiero, un ricordo, una fotografia a un muro di una città, sto dicendo: “Guarda, anche io ci sono passato.” Ed è lì che può avvenire qualcosa di potente, un riconoscimento, una connessione sincera, anche solo per un attimo.

Oggi tendiamo a dare significato agli oggetti, ai simboli sociali che ci vogliono imporre per identificarci: vestiti, status, filtri. Io invece sento il bisogno di tornare a dare significato alle persone, alle relazioni vere, a quei momenti che non si possono comprare né postare. Personalmente, credo che solo mettendoci davvero a nudo con delicatezza, con verità, possiamo contribuire a creare uno spazio umano più autentico. Caro Diario è il mio tentativo di farlo. Di ricordare che condividere non è un’esposizione, ma un atto di fiducia. E, forse, oggi più che mai ne abbiamo bisogno.

Ho scelto di affiggere Caro Diario proprio ad Acquaviva delle Fonti, Roma, Milano e Firenze perché sono i punti che, in momenti diversi della mia vita, mi hanno formato profondamente. Sono città che custodiscono pezzi di me, non tanto nei luoghi in sé ma nelle persone che ho incontrato lì. Ognuna di loro ha avuto un ruolo, anche se magari oggi non ci sentiamo più. Sono connessioni umane, diverse tra loro, che hanno inciso sul mio cammino. Questo progetto è, in un certo senso, un ringraziamento a loro. A quella città, a quel tempo vissuto, a quelle presenze che mi hanno accompagnato anche solo per un tratto. C’è anche una parte di speranza romantica in tutto questo. Chissà, magari quel vecchio amico con cui ho perso i contatti, passando per una di quelle strade, si riconosce in una frase, in una fotografia, e in lui si riaccende un qualcosa. 

Un ricordo condiviso, intimo, profondo. Momenti di spensieratezza, quando volevamo conquistare il mondo, quando avevamo un sogno comune: lasciare in qualche modo il nostro passaggio sulla terra. Carο Diario è anche questo. Un gesto semplice ma carico di significato. Un modo per dire “sono stato qui”, ma soprattutto “ho vissuto qui”, a pieno, con tutto quello che comporta: amore, dolore, sogni, errori, incontri. È un piccolo segno lasciato nel mondo, nella speranza che parli anche a chi lo incrocia, anche solo per un istante.

D. Certo. Come ho spiegato anche nell’introduzione del progetto, fin dai primi mesi dalla pubblicazione Caro Diario ha preso forma come una sorta di viaggio emotivo condiviso. Le affissioni non sono solo un modo per esporre immagini, ma un vero e proprio gesto simbolico: portare nel quotidiano delle persone parole e visioni che parlano di ciò che troppo spesso viene tenuto dentro. Il progetto tocca temi che ci riguardano tutti, a volte in modo sottile, a volte più diretto. Parla di amore, di autostima, di amicizia, di fragilità, di famiglia, di coraggio, di presenza e assenza. Ma anche di solitudine, di crescita, di perdono, di silenzi, di nostalgia. Tutti quegli elementi che compongono il nostro essere umani.

Con la scelta delle affissioni ho voluto dare forza al concetto di incontro tra chi guarda e chi vive quello che è rappresentato. Le strade diventano gallerie a cielo aperto, i muri contenitori di verità condivise. Il passante si ferma, magari per caso, e in quell’attimo può succedere qualcosa: un ricordo riemerge, una consapevolezza si accende, una connessione invisibile si crea. C’è anche una dimensione quasi poetica nel portare la vulnerabilità in uno spazio urbano spesso frenetico e distratto. È come dire: fermati un attimo, respira, guarda dentro di te. In questo senso, le affissioni non sono solo un supporto, ma parte integrante del messaggio.

È lì che il privato diventa pubblico, e il personale può trasformarsi in collettivo. Infine, c’è un aspetto politico, anche se silenzioso. In un mondo in cui siamo costantemente bombardati da pubblicità, slogan e messaggi costruiti per vendere qualcosa, Caro Diario si oppone con parole dette col cuore, e non studiate come fossero claim pubblicitari. È un invito a rallentare, a sentire davvero, a ricordarci che non siamo soli nei nostri pensieri.

D. La lentezza, per me, è diventata quasi una forma di resistenza e opposizione alla richiesta dell’attuale società. In un mondo che corre veloce, dove tutto si consuma nel giro di uno scroll, fermarsi è un atto rivoluzionario. Caro Diario nasce proprio da questa esigenza: rallentare, osservare, ascoltare e respirare. Prendersi il tempo di sentire davvero le cose, senza filtri, senza distrazioni. La lentezza non è staticità, è profondità. Significa dare valore ai dettagli, alle sfumature, ai non detti. È lasciare che un’immagine ti parli non subito, ma dopo qualche secondo, magari dopo qualche ora, o giorni. È accettare che le cose abbiano bisogno del loro tempo per arrivare, e anche per farsi comprendere.

Nel progetto Caro Diario questa lentezza si traduce nell’invito a prendersi un momento per sé, anche solo davanti a un manifesto incontrato per caso. Un frammento di pausa nel caos urbano. Un pensiero che resta, anche dopo aver girato l’angolo. Anche il mio approccio alla fotografia è molto legato a questo concetto: non cerco lo scatto perfetto, cerco quello vero. Quello che arriva quando smetti di voler controllare tutto e ti lasci semplicemente attraversare da ciò che hai davanti. La fotografia per me non è mai solo tecnica, è presenza. È tempo vissuto, non tempo rubato.

C’è anche un’altra dimensione a cui tengo molto: quella del rapporto tra analogico e digitale, fuori dai social network. Caro Diario è un progetto che si muove nel mondo reale, nelle strade, nei muri, nei quartieri. Usa il linguaggio visivo contemporaneo ma lo riporta in una dimensione fisica, concreta, che si può toccare, incontrare per caso, vivere con lentezza. È una forma di comunicazione che nasce nel presente ma sceglie di vivere fuori dal rumore digitale. E forse è proprio lì che trova la sua forza più autentica. Siamo abituati ad associare valore alla velocità, alla produttività, ma io credo che alcune cose abbiano bisogno di rallentare per essere davvero viste. La lentezza, in questo senso, è anche cura. Caro Diario è esattamente questo: un atto di cura verso sé stessi e verso le persone.

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Lug 16, 2025

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