Fin dalle sue origini, la moda si configura come un sistema assolutista perpetuato dal potere dei pochi che vi possono accedere; ma se anche i nobili iniziano a perdere interesse per le regole imposte dal sovrano potrebbe rendersi necessario un cambio di regime
Il concetto di moda, inteso come esigenza condivisa a livello sociale di dover vestire in un determinato modo, nasce nella splendida Francia del XVIII secolo. La Corte di Re Sole è l’opulenta fucina in cui viene coniato quel delicato meccanismo per cui l’abito diventa non più solo mero oggetto funzionale, ma sottile strumento di potere. Luigi XIV percepisce la capacità di una tendenza di insinuarsi nell’animo vanesio della sua corte e di espandere la propria potenza manipolatoria ben oltre le cancellate dorate della reggia, diventando così uno strumento di egemonia prima culturale, e poi politica.
Il vestito, la sua fattura, la silhouette diventano veicoli di un messaggio ben preciso: “Io sono meglio di te”. L’abbigliamento assurge al ruolo di segnalatore di status sociale. Pizzi, merletti, stoffe colorate costituiscono una linea d confine non tanto sottile tra chi ricopre una posizione di preminenza all’interno della società e chi invece ha un valore pari a quello di una coppa di champagne, bevuta a metà e distrattamente poggiata sul bordo di un tavolino tra un ballo e una malizia scambiata dietro al ventaglio.

La moda nasce come strumento di potere, di controllo: è il Re Sole a imporre uno stile, e solo chi lo segue è ritenuto degno di far parte dell’entourage del sovrano. Si fa leva sull’incessante inappagabilità dell’animo umano, che desidera sempre avere di più, essere di più. Ammirazione e bramosia di essere ciò che non siamo si fondono in una perenne insoddisfazione che scivola verso invidia ed imitazione. Ecco dunque che i nobili imitano il re, i ricchi senza titolo imitano i nobili, e i poveri vorrebbero imitare i ricchi.
L’Assolutismo dei giorni nostri
Cosa hanno a che fare le vicende di un tempo e un luogo così lontani con il mondo dei giorni nostri? Probabilmente più di quanto non sembrerebbe a primo acchito. Perché il sistema moda è nato come potere, ed è rimasto tale, fedele alla sua natura e saldo nella sua reggia dorata attraverso i secoli.
Dal momento della sua nascita, la moda ha continuato ad essere cosa per ricchi. Dopo una breve parentesi di sobrietà durante l’epoca della Rivoluzione francese, già con l’instaurazione del Direttorio risorge la passione per un lusso opulento, e la semplicità di linee e fatture viene definitivamente superata con la Restaurazione. Nella seconda metà del XIX secolo lo sviluppo dell’Haute Couture consacra ulteriormente il binomio moda-lusso. L’illusione di una democratizzazione del sistema, con la nascita del prêt-à-porter e di una produzione più massificata, risulta anch’essa priva di sostanza: la vera produzione di massa è quella dei grandi magazzini, dove vengono venduti abiti che altro non sono che copie dei modelli disegnati dai couturier.

Ed è questo il sistema che si perpetua anche ai giorni nostri, in cui la moda dei grandi marchi può essere acquistata solo da chi ha un maggior potere economico, e il prêt-à-porter raggiunge costi sempre più elevati, quasi proibitivi. Ormai irraggiungibili anche per la borghesia medio-alta, i capi firmati sono appannaggio solo dei più facoltosi. Ancora una volta dunque, la moda funge da discrimine tra categorie e strati sociali, tra chi possiede denaro, e quindi potere, e chi no.
La sottile linea di confine tra esclusività e inarrivabilità
Negli anni Sessanta, le contestazioni giovanili si ribellavano al sistema, rifiutando di sottostare alle imposizioni di Re Moda e compiendo scelte di abbigliamento alternative. Si criticava una moda troppo costosa, in cui il prezzo di un abito superava l’ammontare dello stipendio di un operaio, denunciando l’ingiustizia di un sistema che danzava un po’ alticcio sopra agli scheletri di coloro che ne rendevano possibile l’esistenza e il sostentamento. Da Versailles al Sessantotto ai giorni nostri, poco è cambiato.

Ciò a cui si assiste è il perpetuarsi di un sistema che poggia le sue basi su una manipolazione neanche tanto sottile, giocata sull’allure lussuosa ed esclusiva dei prodotti che ci vengono proposti dai grandi brand. Eppure proprio sull’esclusività dei prodotti si gioca una partita silenziosa tra l’idea di moda come status symbol e la caduta di un impero, destinato a sfaldarsi a causa di prezzi troppo alti. L’inarrivabilità di capi e accessori determina un inevitabile calo nelle vendite. Oggi come nella Versailles del Secolo Dorato la moda è appannaggio esclusivamente dei pochissimi che se la possono permettere, e il sistema comincia a risentire di una situazione che esso stesso ha creato.
Può l’assolutismo diventare democrazia?
Forse sarebbe necessario un ripensamento del sistema per assicurarne la sopravvivenza. Una moda che sia democratica, per davvero. O che quantomeno tenti di esserla, rinunciando almeno in parte a quel retaggio culturale, ormai anacronistico, che la dipinge come monarca assoluta di un impero che si sta lentamente sgretolando. Una moda anche più onesta, che ammetta le proprie contraddizioni con maggior umiltà, e che si riproponga di fare meglio.
Eppure, Re Moda sembra preferire nascondersi dietro l’illusione che il suo Grande Secolo sia ancora in atto, e destinato a durare.
E dunque, come spiegare a Re Sole che forse sarebbe il momento di convertirsi alla democrazia, rinunciando al sogno di un assolutismo perpetuo ed eterno?