Il fashion system ormai non fa altro che consumare le risorse economiche e sociali che lo supportano. Ora più che mai si rende necessario un cambiamento, che deve partire dal sistema stesso
Rendere la moda un sistema sostenibile. Suona quasi come un miraggio, un’utopia. Ne è ben consapevole Matteo Ward, autore di “Fuorimoda!”, in cui cerca di analizzare la problematica e proporre soluzioni alla portata di ognuno di noi.
Ward conosce bene il mondo della moda: il padre lavorava nel settore tessile e lui stesso è stato per anni membro del team di Abercrombie&Fitch. Il suo mondo viene rivoluzionato con il disastro del Rana Plaza. Lo stesso libro, scrive “Inizia con un luogo e una data: Rana Plaza, 24 aprile 2013”. Quel giorno infatti il crollo della grande struttura nella periferia di Dacca, Bangladesh, che ospitava diverse fabbriche tessili, causò un enorme numero di vittime. Si tratta di un evento che cambia definitivamente il modo in cui Ward guarda al sistema moda. Dietro al glamour di abiti e accessori sempre nuovi nasconde una produzione sovrabbondante e lavoratori sfruttati all’interno delle filiere produttive.
Intraprende così un lungo periodo di riflessione e di approfondimento delle problematiche legate alla non sostenibilità del sistema. Il risultato è, dopo le dimissioni, la fondazione di Wråd, studio di design che collabora con i brand per migliorate la loro responsabilità sociale ed ambientale. Altro prodotto di questo processo è “Fuorimoda!”, il suo primo libro edito da DeAgostini Mondadori e pubblicato nel 2024.
“Fuorimoda!”: dalle origini dell’insostenibilità ad oggi
Il libro si compone di due sezioni, “una pars destruens e una pars construens”, come le definisce l’autore stesso. Nella prima, Ward indaga e analizza quelli che ha individuato essere i quattro momenti chiave che, storicamente, costituiscono la radice del problema: l’obsolescenza programmata degli abiti legata alla nascita delle collezioni stagionali nella Francia del XVII secolo, la massimizzazione dello sfruttamento sociale e ambientale dovuta alla Rivoluzione industriale, la nascita e la diffusione delle prime fibre artificiali e sintetiche e lo sviluppo delle strategie di marketing. Quattro momenti storici ben definiti dunque, che hanno contribuito in larga misura a generare una situazione in cui il sistema moda non fa altro che produrre e produrre (si contano fino a 52 collezioni all’anno per i brand di fast fashion) abiti di cui i consumatori non hanno realmente bisogno.
Overproduzione, mancato smaltimento e incentivi all’acquisto continuo
Sia che questi capi si accumulino nei nostri armadi in attesa di essere smaltiti, sia che restino invenduti nei magazzini dei negozi, tutto questo ha un enorme impatto ambientale. Tutti questi capi che non sappiamo dove mettere vengono “esiliati” lontano dai nostri occhi e dalla nostra consapevolezza. Finiscono in paesi come il Cile o il Ghana, dove arrivano circa quindici milioni di vestiti ogni settimana. La maggior parte sono inadatti al clima locale o di bassissima qualità, impossibili da rivendere per le trentamila persone che traggono sostentamento da questa attività. Non solo: la necessità di sfornare sempre nuove migliaia di capi da vendere ha un grosso impatto su quanti sono coinvolti nella filiera produttiva.
Questa viene dislocata in paesi come il Bangladesh o l’India, in cui le normative sono lacunose, assenti o facilmente aggirabili, al contrario del mercato Occidentale. Qui i lavoratori sono sottoposti a sfruttamenti, fatta eccezione per le “fabbriche-propaganda”. Queste servono come facciata di una produzione fintamente sostenibile e in Bangladesh sono circa un centinaio su quattromila. In questi paesi vige uno sbilanciamento dei poteri tutto a favore dei brand. Per i proprietari delle fabbriche è impensabile di bloccare la produzione, che deve mantenere ritmi altissimi. Insomma, una ricetta infallibile per disastri come quello del Rana Plaza.
Naturalmente l’eccesso produttivo ha costi enormi anche in termini ambientali. Vengono distrutti interi ecosistemi e utilizzate di sostanze inquinanti e spesso tossiche anche per i lavoratori e gli stessi consumatori. È il caso della produzione di fibre artificiali e sintetiche come il nylon o la viscosa, che prendono piede già dagli inizi del XX secolo. Tutto questo sistema è supportato dalle strategie di marketing. Esse inducono a comprare abiti di cui in realtà non abbiamo alcun bisogno, facendo leva sull’acquisto d’impulso e sull’attrazione del pubblico per la novità.
Ma quindi cosa possiamo fare?
La seconda parte del libro ci introduce a una serie di accorgimenti di cui siamo responsabili noi per primi, in quanto consumatori: diffidare delle aziende che inneggiano al greenwashing, che altro non è se non l’ennesima leva di marketing, ridefinire il nostro rapporto con i vestiti rendendolo più equilibrato e responsabile, evitare gli acquisti d’impulso e lo shopping emotivo. Ward affronta anche il tema della responsabilità dei designer dei brand, esortando la ricerca di un nuovo equilibrio tra funzione, forma e tecnologie. I grandi marchi del settore hanno infatti un’enorme responsabilità nel ridefinire un sistema più equilibrato.
Ciò non toglie che tale cambiamento possa essere esortato, e anche richiesto, dalla platea dei consumatori, che hanno la possibilità di far sentire la propria voce oggi più che mai grazie ai social. Un esempio lampante è il caso del movimento Fashion Revolution, nato nel 2014 dopo il Rana Plaza, che ha lanciato l’hashtag #whomademyclothes. La domanda in questione era rivolta ai brand, ma di fronte al loro silenzio sono stati proprio i lavoratori delle filiere produttive a rispondere. Hanno pubblicato foto in cui dichiaravano di essere loro a produrre i capi di un determinato marchio.
Cambiamento e responsabilità: un sistema autoreferenziale
Insomma, nella prospettiva di Ward il cambiamento è possibile, ma può nascere solo da un ripensamento generale del sistema. Questo deve mettere in discussione i pilastri su cui poggia, abbattere le proprie fondamenta per costruirne di nuove, basate sulla ricerca di un equilibrio ambientale e sociale.
Ward parla di “responsabilità”, facendo riferimento al fatto di farsi carico delle proprie scelte comprendendone le conseguenze.
Ma la domanda è: il settore moda è davvero pronto ad assumersi le sue responsabilità? Per quanto siano sicuramente presenti istanze di cambiamento in favore di una maggiore sostenibilità, la risposta sarà, temo, perlopiù negativa. Il sistema del fashion è un mondo autoreferenziale, che non ha ancora scoperto la rivoluzione copernicana ed è convinto che tutto ruoti intorno a lui.
È un sistema in cui non solo i brand continuano a produrre e produrre, e i consumatori a comprare, ma in cui gli stessi addetti ai lavori non fanno altro che chiudere gli occhi o spostare lo sguardo di fronte all’enorme impatto delle proprie attività. Un sistema consapevole delle proprie azioni, ma che fa finta di niente. Un sistema che si autolegittima, facendo leva soprattutto su una comunicazione che si riduce a puro marketing, non solo nei termini quella dei brand ma anche di quella della stampa di settore.
La stampa di moda: strumento di formazione o di legittimazione?
Si apre dunque anche una grande questione, non affrontata direttamente da Ward ma comunque accennata all’interno del libro, riguardante il ruolo della comunicazione e soprattutto della stampa di moda. Già nel XVIII secolo il Cabinet des Modes, una delle principali riviste di moda parigine, affermava che “la frenesia di mode e quantità di vestiti prodotti in Francia non poteva essere criticata perché produceva un indotto commerciale che nessun altro settore era in grado di eguagliare”. Nel XIX secolo la Rivoluzione Industriale e lo sfruttamento delle classi popolari veniva legittimato dalla classe intellettuale; meno di un secolo dopo, la letteratura futurista si spendeva in elogi delle fibre artificiali per incentivare l’autarchia mussoliniana.
Ma la stampa non dovrebbe essere uno strumento di informazione e formazione dell’opinione pubblica? Non dovrebbe fornire ai lettori gli strumenti per formarsi una coscienza critica? Come può questo accadere se la stampa non fa altro che limitarsi ad accontentare quelli che sono i poteri dominanti, a causa dei condizionamenti (soprattutto economici) che pesano sul capo dei direttori di testata? La stampa di moda ha anch’essa dignità di stampa, e non dovrebbe limitarsi a parlare di abiti e accessori e ad elogiare acriticamente le collezioni dei designer.
Il sistema siamo noi
Servirebbero quindi più figure come Ward, che non si sottrae dal denunciare le falle di un sistema che consuma ciò e chi lo sostiene. Ci vorrebbe un po’ più di coraggio, soprattutto da parte degli addetti ai lavori, nel guardare in faccia le proprie responsabilità, senza limitarsi ad essere eterodiretti dal sistema stesso. Dopotutto, come evidenzia anche Ward, il sistema siamo noi.