Dall’appropriazione culturale al caso mediatico: Prada finisce nel mirino dopo aver proposto all’ultima sfilata ready-to-wear dei sandali chappal tradizionali
22 Giugno: Prada ha presentato la collezione SS26 ready-to-wear uomo portando in passerella per la prima volta delle calzature che, al pubblico e alla Camera di commercio dello stato indiano del Maharashtra, hanno ricordato le tradizionali chappal indiane. Il presidente della camera, Lalit Gandhi, ha affermato: “La collezione comprende modelli di calzature che ricordano molto i sandali Kolhapuri. Sandali tradizionali in pelle fatti a mano a cui è stato conferito lo status di ‘indicazione geografica’ dal governo indiano […].” Ne è scaturito un caso mediatico che ha portato all’accusa di appropriazione culturale contro il brand.
Il CEO, figlio di Miuccia Prada, Lorenzo Bertelli (responsabile sociale d’impresa), dopo la bufera di commenti sui social e l’accusa diretta al brand, ha ammesso che il marchio si è ispirato ai tipici sandali. Inoltre, il gruppo si è mostrato disponibile ad aprire un dialogo in merito a uno “[…] scambio significativo con gli artigiani indiani”.
I tradizionali Kolhapuri chappal indiani
Le calzature, Kolhapuri chappal, vengono realizzate a mano nell’India Occidentale – negli stati di Maharashtra e Karnataka – sin dal XII secolo. E dal 2019 godono di un’indicazione geografica protetta (IGP) che ne tutela l’autenticità. Composte da un anello in pelle di bufalo a cui viene aggiunta una corda a T intrecciata, risultano comode e resistenti all’usura. Ciò che le rende desiderabili in India non è solo il valore culturale che le avvolge, ma anche e soprattutto il prezzo accessibile. Costano, infatti, circa mille rupie, poco più di dieci euro; a discapito degli 884 dei “sandali in pelle” di Prada.
@cbcnews These Prada sandals that resemble traditional Indian footwear, known as Kohlapuri chappals, led to some immediate social media backlash. CBC’s Salimah Shivji explains the shoe’s history, Prada’s response to the criticism and what could be a small silver lining. #Prada #Sandals #Luxury #Fashion #Design #India #CBCNews
“Corsi e ricorsi” in Occidente
Il vero problema che riguarda l’appropriazione culturale nel settore moda affonda le sue radici in un quadro molto più ampio. Le manifestazioni culturali e i loro simboli (oggetti, abiti, danze, musica) veicolano le radici e la storia di una popolazione, dunque ne rappresentano il valore. La rivendicazione sociale di un paese permette alla cultura sottomessa di riscrivere la propria autonomia in un contesto post-coloniale.
La storia tende a ripetersi quando il popolo occidentale compie l’errore di mercificare e svuotare di significato e dignità un simbolo di una cultura che ha una storia di sfruttamento e colonialismo. Questo non riguarda solo il settore moda, ma più in generale il grande mercato occidentale. Mercato che, svalutando e abusando del lavoro di artigiani sottopagati, gioca con il bagaglio culturale e storico di paesi che non hanno i mezzi a disposizione per ottenere un riconoscimento.
Durante il caso Prada-Maharashtra, Dhanendra Kumar, ex direttore esecutivo della Banca Mondiale, ha ammesso: “Mentre gli artigiani e i piccoli produttori indiani eccellono nell’artigianato, raramente hanno accesso al capitale o all’acume imprenditoriale” (dal quotidiano indiano Economic Times).
Ispirazione o “copia e incolla”?
Quando un creativo inizia la sua matta e disperatissima “cattura” di informazioni”, tende a riproporre un determinato contesto, storytelling o elemento visivo. Il tutto avviene per necessità espressiva e artistica e, se si tratta di un creativo professionale, con massimo rispetto. Nel momento in cui il processo diventa emulazione, si va incontro alla perdita di significato, nonché a un ingombrante e inconcludente numero di immagini da aggiungere alla lista. L’atto diventa legalmente ed eticamente indicibile quando va a pescare simboli che riguardano i valori o la storia di una determinata cultura.
Nella moda questo avviene da secoli. Da quando gli aristocratici sono stati abbondantemente snobbati dalla classe borghese, la strada è diventata bacino fertile di tendenze e avanguardie artistiche che hanno rivoluzionato il concetto stesso di stile. Il processo è stato definito “trickle down effect”. Ed è, infatti, evidente nel momento in cui ci chiediamo cosa significa il termine streetwear. La conseguenza di tale effetto spesso è stata la perdita di significato delle tendenze provenienti dai sobborghi urbani, o da minoranze che utilizzavano l’abito come espressione di rivendicazione sociale e manifesto di intenti. Una volta reso prodotto e mercificato il racconto si trasformava in slogan pubblicitario.
Il fenomeno dell’appropriazione culturale punta a lasciare chi si trova in basso nella catena alimentare affamando le prede e abbuffando i predatori. Gli artigiani delle piccole aziende che producono un prodotto vengono copiati e non creditati nel commercio di tale prodotto. Dunque, restano nel loro piccolo mercato guadagnando la metà della metà (della metà) del brand di lusso che lo vende in boutique.
Nel 2015 la stilista francese Isabel Marant ha lanciato una collezione femminile che riprendeva il ricamo tradizionale degli huipil, abiti tipici della comunità messicana Mixe. I suoi capi venivano venduti a 365 dollari (circa 4.500 pesos), mentre un huipil autentico costa appena 300 pesos. C’è stato anche il caso di Marc Jacobs che venne accusato dopo aver fatto sfilare (SS17) modelle bianche con dreadlocks colorati (attribuiti ai Rastafari).
Nel frattempo, nel paradossale panorama editoriale, la copertina del primo numero di Vogue Arabia (2018) ritraeva la modella statunitense Gigi Hadid con un velo. L’uso del velo, insieme alla mancata rappresentazione di una modella mediorientale, scatenò un’ondata di polemiche. Deena Aljuhani Abdulaziz, direttrice del magazine, accusata di aver piegato un simbolo religioso alla sensibilità estetica occidentale, venne sollevata dal suo incarico.
La domanda dunque è: come evitare che questo accada?
Oggi più che mai il mercato del lusso ha bisogno di sostenere e collaborare con realtà distaccate dal panorama mainstream. Un mondo inondato da trend troppo veloci per essere sostenuti da un essere umano normodotato e una comunicazione poco dignitosa e veritiera sul prodotto. Il tutto immerso nel calderone della grande paura di fallire.
Le piccole realtà, i brand emergenti, i paesi che hanno il diritto di raccontare la propria e unica storia, aggiungono valore ai nostri racconti. La storia ci ha insegnato che dalla collaborazione e dal lavoro di team ben consolidati nascono storie innovative e, nella migliore delle ipotesi, rivoluzionarie. Fatto sta che dopo la sfilata di Prada, le ricerche dei sandali Kolhapuri su Google Trends hanno registrato un’impennata. Mentre i rivenditori – secondo la stampa locale – segnalano un crescente interesse da parte dei clienti.
Probabilmente questa temporanea conclusione degli eventi può essere letta come uno spiraglio di speranza verso un nuovo orizzonte della moda. Un mercato più consapevole ed equo, capace di dialogare con minoranze e realtà in via di sviluppo. Promuovendo, così, la collaborazione e la nascita di nuove narrazioni.



