Spettacolo al cloroformio 

“I sogni son desideri di felicità” diceva qualcuno, ma diventano narcotici nel momento in cui perdiamo il contatto con la realtà

Freud affermava che “il sogno è l’appagamento di un desiderio”. Il nutrimento di una mente affamata. Certe volte capita di restare bloccati a fissare un punto qualsiasi nel vuoto. Come l’angolo più insulso della nostra stanza o l’aiuola al centro di una qualunque strada trafficata. Il cielo plumbeo di un noioso pomeriggio invernale. O, magari, un oggetto pieno di significati che in quell’esatto momento diventa polvere nel vento. Certe volte capita di camminare senza sapere dove precisamente si sta andando. Guardiamo dritto verso marciapiedi già calpestati, pali della luce tappezzati di parole che non abbiamo mai letto. Il negozio in quella stradina che sulla porta ha lo stesso cartello di sempre. “Aperti dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18”.

Tutto rimane esattamente dov’è sempre stato, mentre la mente vaga in un mondo altro dove la fantasia non deve fare i conti con la realtà. Succede, certe volte, di distrarsi dal proprio sogno ad occhi aperti e rendersi conto che la realtà è diversa da come ce la immaginiamo. A Milano, nel 2024, sono state registrate dal comune 2300 persone senza dimora, di cui nel 2023, 1697 erano minori. Ma non basta per svegliarsi completamente, forse serve guardare dritto negli occhi i rami spezzati e le foglie ormai secche sul ciglio della strada. Non basta passarci accanto mentre riposano assuefatti dalla fame e dalla sete. Serve lasciarli giacere dinanzi alle innumerevoli boutique del lusso che affollano il quadrilatero. Forse bisognerebbe renderli manifesto del coma pubblico a cui stiamo assistendo. Ma ancora il nostro sonno di bellezza continua, diventa sogno e si trasforma in torpore auto indotto. In cloroformizzazione dell’anima. 

Dobbiamo guardare le repliche del telegiornale, quelle del mattino, del pomeriggio, o magari della sera. Restare attaccati al divano morbido di casa mentre le stragi sulla striscia di Gaza imperversano. L’Ucraina è arrivata al terzo anno di terrore e distruzione, ma poi a noi cosa importa? C’è la Champions League tre secondi dopo, o il servizio sulla fashion week a Milano e a Parigi. Abbiamo un tetto sopra la testa e i trend di TikTok che fanno la hola con la carta di credito. 

“La società dello spettacolo”

Guy Debord, ne “La société du spectacle” (1967), ha profetizzato la situazione sociale odierna. In un mondo dominato dai media, tutto può venir messo in discussione a eccezione dello spettacolo stesso. Quindi, la battaglia oggi è stata vinta dall’intrattenimento che assorbe come una spugna qualsiasi forma di opposizione, trasformandola in un immenso circo surreale. E come quando viviamo un lutto, tra una dormita e l’altra, ci diciamo i soliti “avrei potuto”, “avrei dovuto”, “sarebbe stato bello se..”. Secondo il rapporto “Digital 2025” stilato dall’agenzia pubblicitaria We are social, l’utente medio spende circa sei ore e quaranta minuti al giorno online, di cui circa due ore sui social.

Come un’estasi senza fine, le piattaforme ci ammaliano sempre di più allontanandoci gradualmente dal terreno fertile del mondo. Uno spazio catartico che gli antichi greci avevano costruito per il dibattito e il confronto. Un luogo poetico e filosofico, fondato su pietà (eleos) e terrore (phobos), dove la tragedia svelava i mali del mondo per capirli e purificarsene. Per i greci, capire che la realtà non è solo bianca o nera, ma fatta di sfumature, era la via per la rinascita e la crescita morale del popolo. Lo spettacolo greco nasceva dal confronto e dal bisogno di conoscere e accogliere la negatività del mondo come si accolgono le imperfezioni dell’animo umano. 

La comunicazione odierna pone le dicotomie del mondo sullo stesso piano e nella medesima storia. Ci racconta sogni patinati, meme su Instagram, guerre, ma anche il meteo, la moda, la fame, l’amore. Ma, se ci si allontana, il quadro generale è il risultato della decontestualizzazione delle informazioni e della scarsità di fonti autorevoli. La conseguenza è la perdita di significato di ogni cosa che posta nello stesso calderone assume il medesimo valore. Dunque, il video di quella crema miracolosa che garantisce l’eterna giovinezza si trova subito dopo il reel sulla situazione catastrofica degli ospedali in Palestina. Ma il sogno non finisce più dopo averlo visto, il sogno continua. Oggi è più semplice restare immobili davanti al dolore, piuttosto che affrontarlo. Tanto ci sarà un altro video divertente. Un’altra influencer ci dirà come vivere la nostra vita e noi ci affideremo a quella voce elettronica. 

Oggi è più facile immaginare la vita di una celebrità, o idealizzare quella del nostro vicino sui social. Lasciarsi andare allo scorrere delle cose, senza prendere posizione. Conviene di più scrivere il proprio pensiero in un commento piuttosto che guardare negli occhi il nostro interlocutore e affrontare la diversità e la fallibilità del genere umano. La speranza, ultimo cavaliere a posare le armi, indomita si nasconde ancora fra le pagine dei libri. Si cela fra i pensieri sommessi di chi si sofferma sui dettagli e osserva la vita così com’è, opaca.

Le controculture che hanno rivoluzionato la storia

La componente reazionaria ed emotiva, di cui l’arte è per la maggior parte costituita, potrebbe salvarci dall’apatia, cloroformio del contemporaneo. Basti pensare ai movimenti controculturali che hanno rivoluzionato la storia moderna. I mezzi espressivi principali erano scrittura, musica e moda legati e tenuti insieme da una volontà comune di esplorare nuovi linguaggi. L’intento era: trovare nell’emancipazione artistica una libertà espressiva e utilizzarla come veicolo di ideologie, temi culturali e confronto sociale. In Italia, nel 1967, i giovanissimi “Giganti” cantano a Sanremo una delle canzoni iconiche del movimento controculturale degli Hippie: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”.

Diventa storia la dirompente sincerità espressiva della rivoluzione giovanile. Nella ballata di pace intonano a gran voce: “Era scritto in un cartello sulla schiena di ragazzi che senza conoscersi, di città diverse socialmente differenti, in giro per le strade della loro città cantavano la loro proposta. Ora pare che ci sarà un’inchiesta…” Facendo riferimento alle manifestazioni studentesche contro la guerra in Vietnam, alla povertà dilagante nei paesi del terzo mondo e all’emancipazione giovanile dai retaggi sociali degli anni Cinquanta. La risposta degli adulti al movimento fu per molti aspetti conservatrice, retrograda e intollerante al cambiamento.

Agli antipodi del movimento controculturale dei Figli dei Fiori possiamo posizionare il movimento Punk. Dirompente, aggressivo, rabbioso, violento, distruttivo. Il movimento Punk ha letteralmente occupato le case dei borghesi tradizionalisti londinesi. La pace non era possibile fra le strade di Londra e dintorni. Erano diventate trincee di adolescenti in stato di povertà e operai ridotti alla fame e alla sete. L’occupazione divenne una realtà quotidiana, una risposta nei confronti di uno Stato assente, impegnato a risanare l’inflazione del paese. Borchiati dalla testa ai piedi, indossavano l’armatura del dissenso politico e sociale. Esprimevano rabbia e disillusione nei confronti di un futuro ormai distrutto. Gli Hippie e i Punk, testa e croce della stessa moneta, hanno lasciato un segno indelebile nella lotta contro la classe dominante. Così come la beat generation, i movimenti sessantottini, quelli femministi e moltissimi altri.

Il quadro sociale e politico attuale, opprimente e convenzionale, non è molto distante da ciò che le generazioni del passato hanno vissuto sulla propria pelle. “Corsi e ricorsi storici” ci confermano ogni giorno quanto sia necessaria una Rivoluzione nell’assetto sociale di una popolazione. La comunità, combattendo contro il potere della classe dominante, custodisce fra le mani la speranza di un mondo migliore.

Dunque, l’obiettivo che ognuno di noi dovrebbe porsi è trovare nuove alternative di vita al cloroformio del contemporaneo. Pattume e morte del libero pensiero e dell’espressione artistica. Si dovrebbe cercare il confronto allontanandosi dal flusso solipsistico dell’algoritmo cercando nel prossimo punti di vista alternativi. Infatti, non è un caso che dall’incontro di diverse culture nasca spesso una filosofia nuova, magari risolutrice. Sarebbe ottimo ampliare le menti, guardare altrove, lontano dal nostro orto. Gli hippie erano nomadi, la loro casa era il mondo. Un mondo distrutto dalla guerra, come il nostro. Un mondo che ancora ha la necessità di essere plasmato, ripensato e ricostruito. Ma il quesito è: siamo disposti a declinare l’invito sublime e manipolatorio dello spettacolo al cloroformio del contemporaneo?

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Apr 16, 2025

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