Il pesce rosso che voleva diventare un alpinista

L’inclusività, non solo del del corpo, cerca di farsi spazio nel tossico sistema moda, inciampando fra stereotipi di genere, algoritmi fuorvianti e un mercato in crisi

Il corpo è la superficie fragile su cui il mondo cammina, quel velo trasparente che a volte diventa muro infrangibile. Un costrutto sociale indelebile, talvolta inaccettabile che, a poco a poco, diventa sempre più sottile, più simile a un disegno astratto che a un insieme di pelle, ossa, organi e cuore. Il body shaming, secondo una definizione della Treccani, consiste nel deridere qualcuno per il suo aspetto fisico. Nel sistema moda è implicito, una versione utopica del “se hai la personalità giusta puoi indossare ciò che vuoi”. L’argomento è affrontato pubblicamente e le diapositive risultano un susseguirsi indefinito di modelle fin troppo sorridenti. Una scelta di un casting multietnico per essere più inclusivi possibili e un’ipocrisia velata che si insinua dappertutto, come la polvere. 

Il cronometro della nuova era digitale

Persino i social, patria dell’imponente e cieco politically correct, ospitano con insistenza content creator, influencer e promoter pagati per riproporre il messaggio sulle varie piattaforme. Un messaggio in cui magari credono fortemente, ma che verrà trattato nello stesso modo di una pubblicità sulla rete nazionale, con insistenza e superficialità come se chi ascolta non fosse capace di comprenderne il significato. Secondo vari studi, dovremmo avere la soglia dell’attenzione di circa otto secondi, come quella di un pesce rosso. In sostanza, appena avrò finito di spiegarti il perché tu non debba sentirti costretto a chiamarmi grassa, in un minuto composto da 60 secondi, avrai quasi espresso la tua opinione non richiesta circa sette volte. Una follia, vero? 

Quella strana sensazione di sentirsi esclusi

Il sistema, come un tappeto che copre la sporcizia, sviluppa il tema in superficie lasciando al cliente finale una borsa con inciso un brand in stampato che può permettersi solo chi delle tematiche sociali non ne sente il gusto amaro. L’interesse generale è quello di fatturare, creare audience, attirare l’attenzione su di sé, ma senza allontanarsi da uno stile alla portata di tutti. Un’estetica che se non si approva, ci si trova d’improvviso rimbalzati fuori dal sistema, come la ragazza “sveglia e grassa”  che è costretta a dimagrire e diventare una fashion victim per avere credibilità nella redazione dove lavora. “Il circoletto della moda”, dunque, è ristretto a pochi adepti che rientrano nei canoni prestabiliti e che dovranno conformarsi ai loro capi, ai capi dei loro capi fino ad arrivare a chi dai dogmi del fashion non viene toccato e risulta perciò finalmente libero.

La dea Speranza fra le strade delle città

Nel panorama indipendente risiede la speranza di coloro che hanno consapevolmente scelto di accettare il proprio corpo e di renderlo un veicolo di valori e storie innovative.

Magliano, Collina Strada, Marco Rambaldi sono esempi di brand che hanno portato sulle passerelle internazionali un’alternativa fatta di codici estetici personali, non riproducibili dalla massa, ma accolti fra le minoranze. Permeati di un desiderio comune di allontanarsi da un mercato semplice e prevedibile e di cercare altrove, fra le strade delle città, lì dove la vita brulica di contrasti, di bianco e nero, ma anche di sfumature non sempre facili da individuare e comprendere. Ricordando un tempo in cui vestirsi aveva anche una ragione politica e sociale, era un’arma per combattere il radicato pensiero culturale in cui giovani e donne si trovavano ai margini.

Non aveva solo il compito di “decorare”, ma conferiva uno status, donava potere, autostima. Richiamava a dei concetti espressi da controculture che combattevano per i propri ideali attraverso estetiche ben precise. Il corpo era quel foglio sui cui disegnare la propria unica e irripetibile opera d’arte. Una creazione composta da individualità, ma anche da community, di gesti istintivi e di studio “matto e disperatissimo”. Una nostalgia amara, ma reale che fa fatica ad attecchire nel mercato mainstream. Un mercato drogato da fatturati che sfrecciano sulle montagne russe e da frettolosi cambi di poltrona.

Lo streetcasting e la scelta di modelle over quaranta sono la punta dell’iceberg di una tematica molto più ampia che risiede nel pensiero comune. Il quale è manipolato dalle passerelle che saltuariamente lasciano spazio a modelle plus size (Ashley Graham, Paloma Elsesser, Precious Lee), ormai diventate mine vaganti fra le taglie campionario. 

La trappola della moda

Il corpo oggi viene raccontato come un pensiero intrusivo che ogni giorno ci ricorda quanto non siamo adatti, conformi, armoniosi, perfettamente taglia 36. Seno piccolo, gambe lunghe e snelle, lo sguardo perso e un sorriso falso. Non è reale e perciò non ha diritto di replica, è costretto ad assumere la forma che vogliamo, quando vogliamo. Lo spazio vuoto dove poter aprire una strada verso l’inclusività è ingombrato da stereotipi sulla femminilità e da soluzioni estreme di eterna giovinezza. Il tutto accelerato dall’algoritmo.

Un groviglio paradossale di elementi contraddittori dove la body positivity è portata allo stremo. E scardinata dai suoi fondamenti e la rappresentazione di modelle agé viene spesso collegata all’upper class, lasciando fuori più della metà della popolazione mondiale. La conseguenza è che il cliente finale è ingabbiato come un pesce rosso nella sua bolla di vetro e lasciato lì a girare ossessivamente intorno a sé stesso.

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Feb 25, 2025

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