Art

Arte e vita: l’incontro come performance del vivere

Vinicius De Moraes e il Living Theatre: dalla tecnica dell’incontro alla dissoluzione delle barriere tra arte, vita e sensi


Generalmente poniamo a base di questo giudizio l’importanza degli incontri nella vita, impropriamente sostenendo che ogni incontro è un arricchimento, un’espansione del sé e pertanto un continuo crescere.
Pur non volendo disconoscere il valore formativo degli incontri per la persona, ritenendo anzi che essa si costituisce e si rafforza proprio nelle relazioni intersoggettive significative, vogliamo qui porre maggiore attenzione, nell’analisi letterale nella frase di De Moraes, sul sostantivo “arte” nell’espressione “arte dell’incontro“, posta dall’autore stesso in situazione di equivalenza con il sostantivo “vita“. Vogliamo qui significare che tra il termine vita ed il termine incontro v’è di mezzo l’espressione “arte”.

In questo orizzonte di pensiero, per arte non si intende l’oggetto di studio dell’estetica che si concretizza nell’azione poetica degli artisti, bensì l’accezione greca di arte come téchne, nel senso di “perizia”, saper fare e voler fare. Occorre per ” vivere la vita” essere disponibili a diventare esperti nell’arte degli incontri.
Platone definisce la téchne come una condotta di produzione che trasforma l’essere-niente delle cose in essere. Ecco quindi che la tecnica (arte) dell’incontro, laddove acquisita dopo la nascita, trasforma l’essere-niente della persona in essere persona. Non sono già gli incontri occasionali a farci crescere ma la nostra disponibilità agli incontri, la nostra abilità nel saperli individuare, tessere e sviluppare. Questa è la vita e questa è l’arte.


Il Living Theatre nasce da un incontro, titanico, e si sviluppa generando la poetica e l’estetica degli incontri.
L’incontro fondativo è quello di Julian Beck e di Judith Malina. L’incontro avvenne nel 1943, nella città di New York. La coppia apprese ben presto la tecnica della valorizzazione degli incontri tanto che dopo solo quattro anni insieme fondarono il Living Theatre nel quale e per il quale trascorsero tutta la vita.
Volendo sintetizzare o meglio schematizzare il portato innovativo e creativo del Living Theatre, dovremmo soffermarci su due spazi di riflessione. Il primo concerne l’abbattimento delle barriere tra le diverse discipline artistiche ed il secondo, più propriamente teatrale ma – come vedremo – di rilevanza estetica generale, l’abbattimento della barriera tra palcoscenico e platea ovvero tra attori e spettatori.
Il minimo comune denominatore tra i due spazi rivoluzionari, quello dove interagiscono tutte le forme d’arte e quello teatrale in cui si interagisce tra attori e pubblico, è individuabile nell’evento performativo.

Julian Beck Judith Malina The Living Theatre

Nel teatro d’avanguardia Julian Beck e Judith Malina prevedono la partecipazione attiva degli spettatori e la sollecitano in sala. In alcuni eventi del Living Theatre gli spettatori erano chiamati a salire sul palco per toccare e quindi interagire fisicamente con gli attori oppure erano invitati a toccare gli altri spettatori affinché si realizzasse un evento performativo che avesse il senso degli incontri di pensieri e di corpi, attraverso il tatto ovvero il senso che per primo ci connette alla vita quando appoggiamo la bocca al seno materno. Il tatto è stato per lungo tempo escluso dalla sensorialità dell’esperienza estetica ed in tale ragione è possibile ritenere che l’invito dei performer a toccare e a essere toccati recupera alla conoscenza un’esperienza sensoriale ed estetica maggiormente completa.

Si tratta anche qui di far cadere barriere: toccarsi significa mettersi in continuità con chi produce la performance o con chi, insieme a me, assiste o meglio partecipa all’atto performativo.
Ma ad una ben più rilevante caduta invitarono Julian e Judith: alla caduta della divisione dell’arte in forme prime e sconnesse. La pittura, la scultura, la musica, la letteratura, la poesia, il teatro, la danza erano intese come discipline separate, con regole proprie ed occupanti spazi diversi nei mondi dell’estetica e dell’esperienza umana.

L’atto performativo, generalmente chiamato “evento” o “azione” o semplicemente “performance”, si contrappone ed intende sostituire l’opera intesa come opus dell’artista ovvero come qualcosa che l’artista pone nello stato di res e che esiste ed esisterà in modo indipendente dal proprio artefice e da chi la osserva. Essa, in quanto res, sarà collocata in uno spazio ove chiunque vi possa accedere, potrà vederla e avrà una durata pari alla durata della sostanza e della forma che la compongono.

L’evento invece si realizza in modo sempre diverso, in un luogo sempre diverso o comunque reso diverso dalle diverse interazioni tra performer e fruitori e avrà la durata della performance.
Senza quegli specifici performer, senza quei fruitori, in altro spazio, in altro tempo, contrariamente all’opera d’arte come precedentemente intesa, la performance non sarà uguale a se stessa.

Proprio per tali ragioni Hermann Nitsch numerava sequenzialmente le proprie actionen volendo indicare come ognuna si differenziasse dall’altra svolgendosi in un preciso momento storico, in un luogo particolare in cui l’artista e i performer hanno agito azioni precise e non perfettamente ripetibili di fronte a un pubblico sempre diverso con diverse reazioni e differenti stati emotivi.

Ecco che nel momento dell’azione performativa, lo scacco lirico si avverte istantaneamente, nel momento della percezione e della appercezione ed è riservato solo ai presenti, agli astanti anzi ai partecipanti; per gli altri non resteranno che testimonianze, fotografie, video, documenti. Più semplice risulta intendere l’evento performativo se pensiamo all’esecuzione musicale. La partitura non è l’opera; essa è costituita dalla sua reificazione fisica proprio quando si trasforma in evento laddove evento significa accadimento, qualcosa che è avvenuta o che potrà avvenire oppure – in altra accezione – qualcosa che è accaduta e che comunque riveste una certa, straordinaria importanza.

Riusciamo bene a comprendere come ogni esecuzione musicale della I sinfonia di Mahler rappresenti un momento performativo irripetibile per la diversa comunicazione emotiva tra i musicisti e i fruitori che inizia e finisce in quel luogo e si conclude al termine dell’esecuzione. Resteranno documenti, registrazioni audio e video ma la performance è finita, fino ad un nuovo evento, che potrà dare nuovi contatti fisici (suono) fra musicisti ed ascoltatori e creare emozioni nuove nei primi e nei secondi.

I sinfonia di Mahler

In tal senso arte e vita coincidono, come nell’arte anche nella vita, le nostre azioni, i nostri “eventi”, i sentimenti, le capacità reattive, la capacità di produzione e di riproduzione hanno momenti, tempi, luoghi, inizio e fine, nulla si ripete di fronte alla pluralità dei luoghi performativi della vita, di fronte alla pluralità dei luoghi, dei tempi, dei momenti e delle capacità introspettive di ognuno di noi.

L’importanza, anche filosofica, del Living Theatre risiede proprio nell’aver dato una chiave di interpretazione realistica al rapporto tra arte e vita, ponendo l’accento su ciò che accade hic et nunc e non su ciò che deve necessariamente accadere, in quanto già predisposto e scritto da qualcun altro.
Dopo oltre due millenni, il panta rei di Eraclito surclassa, almeno in ambito estetico, l’idea monolitica e statica dell’essere di Parmenide. Ciò che scorre è vivo, è vero ed è bello!
Soprattutto a scorrere e scomparire devono essere le barriere tra le fruizioni estetiche e quelle sensoriali.

Ogni forma di godimento estetico deve essere inscindibilmente sensoriale e appercettiva, deve accarezzarci, toccarci, trasformarci, farci crescere, riempirci fino a farci apprendere come serenamente abbandonare la vita, per totalmente fruire in un altrove indefinibile e sconosciuto. Un’altra grande corrente, transartistica e transnazionale, ha sviluppato analoghi temi. Ci riferiamo al Fluxus che costituì una rete intercontinentale ed interculturale di artisti di varie arti e discipline che propugnavano lo scorrimento e la continuità tra una e l’altra forma artistica, tra arti visive, musica, architettura, letteratura, urbanistica e design.

Facendo riferimento alla paternità onoraria di Marcel Duchamp, artisti e musicisti introdussero nei propri eventi e nelle proprie performance elementi di realtà, di vita, quali i rumori nella musica, il silenzio nei concerti di musica classica o l’ascolto diretto della natura e di noi stessi. Nell’evento “Dionysus in 69” del Living Theatre, venne introdotta la “scena delle carezze”. Gli attori-performer, molto succintamente vestiti, si avvicinavano agli spettatori e cominciavano ad accarezzarli. Gli spettatori reagivano in modo diverso, alcuni si scostavano, altri rimanevano immobili, altri ancora rispondevano con carezze alle carezze in una sorta di malintesa intimità spesso senza raggiungere la consapevolezza estetica del superamento della barriera del tatto.

Non possiamo non ricordare come proprio da queste considerazioni nasce la storica performance Imponderabilia del 1977 di Marina Abramovič quando, agli stipiti della porta d’accesso alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, pone se stessa da un lato e il suo compagno Ulay dall’altro, entrambi completamente nudi, quali viventi cariatidi, e il pubblico per accedere allo spazio espositivo doveva compiere il rito performativo di eliminare ogni disorientamento tra la propria persona e la persona nuda che avrebbe necessariamente contattato, sfiorandola.

Imponderabilia del 1977 di Marina Abramovič

Guardare e non toccare! Questo era il monito che ebbe a separare la vista dal tatto nell’evoluzione di una civiltà che vedeva l’individuo come monade all’interno della propria specie. Guardare e toccare sono due momenti sensoriali delle esperienze estetiche, inseparabili anche secondo Merleau-Ponty. L’arte, secondo il filosofo francese, deve superare la concezione antitetica e spesso oppositiva tra vista e tatto.
Per tale motivo i fruitori esteticamente preparati oggi soffrono l’imposizione vessatoria di alcuni direttori di spazi espositivi che impediscono di toccare l’opera. Quando l’opera si realizza e realizza in noi la propria finalità, essa è nostra ed è quasi impossibile reprimere la pulsione di toccarla.

Fu pure atto performativo, diretta conseguenza del Living Theatre, la performance di Tracey Emin quando l’artista si pose nuda sotto una tenda bianca invitando il pubblico maschile a congiungersi sessualmente con lei. Quest’atto, questo evento, questo accadimento si colloca ad un livello più alto di significatività nella produzione estetica contemporanea, riuscendo, nell’intenzione dell’artista e dei pochi fruitori che fossero riusciti a praticare e comprendere l’amplesso con l’artista, come  momento di rappresentazione estetica e di messa in scena dell’atto sessuale inteso come evento dimostrativo della continuità produttiva dell’opera, dall’artista al fruitore.

Tracey Ermin “My Bed”

In tal modo, ancora, arte e vita sono la stessa cosa, non si distinguono, così come con scultorea chiarezza riferisce e ammonisce Julian Beck: “non ho scelto di lavorare nel teatro, ma nel mondo” oppure quando ricorda che “il teatro è diventato la mia vita, il teatro vivente, ci divoriamo a vicenda. Non posso distinguere l’uno dall’altro”. No! Nessuno pensi qui ed ora al verso di Shakespeare “è il mondo intero una ribalta”.
Il poeta Inglese intendeva estendere alla vita la falsità della recitazione.
Beck, poeta americano, intende estendere all’arte la verità della vita.

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Ott 17, 2024

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